Calcio / L’alienazione della domenica

 

Astrolabio 1967/35 – 3 settembre 1967 p. 28

 

Il grande carrozzone s’è rimesso in moto. A Napoli, il consueto assedio isterico ai botteghini degli abbonamenti; a Torino, manifestazioni di piazza contro la minacciata cessione di un giocatore; di là dall’oceano, l’Inter batte il Santos, centinaia di tifosi italo-americani scendono in campo per far la festa alla squadra di Pelé. Più in sordina, ai margini della curiosità pubblica, avviene il cambio della guardia alla Federcalcio, con il monarca assoluto che, stanco, passa la mano al suo vice: A Napoli si freme per Sivori che, per l’ingaggio, vuole 50 milioni sull’unghia;  a Milano l’interrogativo diventa ossessivo: Moratti lascia, non lascia? Si riprende a parlare di calcio: ma s’è mai smesso?

Il calcio dura tutto l’anno. Mentre giocatori e allenatori erano in ferie, han lavorato i general managers e i presidenti. Riva, Nielsen-Guarneri, Zoff, Picchi: 500 milioni, 400 milioni, 200 milioni, 150 milioni di “libero” e di acutezza toscana. Assegni, cambiali, azioni da sottoscrivere all’Hotel Gallia in ebollizione. Fuori, la gente che aspetta, impaziente; manifestazioni a Torino, sottoscrizione a Cagliari. E tutto per loro, per la gente che manifesta e aspetta impaziente. Perché continui a parlare di calcio.

Del Napoli, appaltatore di idoli sulla via del tramonto, furioso di abbonamenti e di incassi, nell’attesa elettorale del suo primo scudetto. Del Varese, monopolio sportivo di cucine economiche e di frigidaires. Della Roma, ministeriale ma non burocratica, arruffona, ogni anno diversa. Della Juve, la “vecchia signora” dal motore calibrato, di serie, a immagine e somiglianza dell’austerità della “grande famiglia Fiat”. Dell’Inter, l’antica bizzarra trasformata in azienda modello: capitali, investimenti, vittorie, ammortamenti. Di tutte le squadre di calcio.

 

Aspettando Mao. L’enorme ingranaggio ha bisogno di questo. Una volta si diceva del tifo degli italiani: è inevitabile, siamo ancora un paese sudamericano. Oggi l’esempio inglese, o il tedesco, dicono che il calcio affonda le sue radici anche nei paesi a capitalismo maturo. La cosa più futile del mondo – un pallone preso a calci per novanta minuti – è ormai un fenomeno universale. Negli USA sono cominciati i primi esperimenti, il Terzo Mondo tenta già di avvicinarsi al modello occidentale. Non s’è ancora vista soltanto la nazionale di Mao: ma c’è tempo. Intanto siamo tutti coinvolti in questo grande fenomeno di mistificazione universale. Qual è il senso di tutto questo?

Parliamo con Angelo Moratti, l’industriale lombardo – e presidente dell’Inter – che oggi in Italia è il più prestigioso dirigente di club. E’ uno di quei pochi che conoscono perfettamente e fanno muovere gli ingranaggi della grande macchina. L’obiettivo della sua attività è “far parlare di calcio”.

“E’ in un certo senso un dovere morale – ci dice Moratti.  “Le squadre si devono continuamente rinnovare, perché il calcio non perda, anzi aumenti d’interesse. Si tratta di pensare al tempo libero della gente. Ora hanno il frigorifero e l’automobile per il week-end. I novanta minuti della partita sono il pretesto per farli discutere, di calcio, da una settimana all’altra, tutto l’anno”.

“Un pretesto”, dice Moratti. Ed è questa la capacità del calcio, di adeguarsi alle diverse  realtà sociali provocando in ognuna di esse reazioni formalmente identiche. Fabbricando cioè problemi e interessi fittizi. Esso funziona così da tramite artificiale e illusorio tra l’individuo e la società, estraniandolo dai problemi reali. Da noi lo sport di massa ha sempre avuto un carattere di apoliticità programmatica, e più in generale di distacco dalla concreta dialettica sociale. E questo carattere è stato addirittura mitizzato talvolta, come è avvenuto – per il ciclismo – quando si è attribuito alla vittoria di Bartali al Tour de France del ’47 il potere di aver fermato la rivoluzione, “distraendo” le masse in rivolta dopo l’attentato a Togliatti. Tramontati i tempi d’oro del ciclismo, questa capacità di “distrazione”, che tende a divenire esclusiva, costituisce la caratteristica tipica del calcio.

Per questo tutti aiutano il calcio. Fin nelle squadre dilettantistiche di paese, dove i dirigenti vanno di negozio in negozio a fare collette. Sugli incassi delle partite interviene l’erario, e con quel che rimane – poco più della metà del totale – non si riesce nemmeno a coprire le spese di gestione dell’annata (ritiri, trasferte, premi a giocatori, allenatori, medici, massaggiatori ecc.). Poi ci sono gli ingaggi dei campioni, i nuovi acquisti per rinnovare la squadra, gli interessi passivi da pagare alle banche e altre cose ancora. E così il presidente ci mette del suo; le varie autorità comunali, provinciali o regionali stanziano contributi in milioni – con regolari delibere ufficiali “in vista del particolare significato sociale” dello sport del pallone. E quando tutto questo non basta intervengono i simpatizzanti – industriali, commercianti ecc. – a versare il loro obolo.

La gente così può parlare di calcio, per il calcio si muove.

 

 

Amare la Sardegna. “Il calcio – continua Moratti – suscita simpatia e interessi. Divenuto grande squadra, il Cagliari ha mobilitato tutta l’isola. Per assistere alle partite sono scesi dalle montagne in città, magari per la prima volta. Con le partite hanno visto le automobili e i negozi, han comprato il giornale. Per seguire la loro squadra del cuore, sono arrivati in Sardegna i tifosi del continente, e magari ci son tornati, attratti dalla bellezza del paesaggio. La squadra è diventata, in un certo senso, un centro di propaganda a sfondo sociale. E’ naturale che tutti quanti amano la Sardegna aiutino il Cagliari”.

Il talismano-pallone avrebbe quindi una grande capacità: il livellamento, l’integrazione tra le diverse realtà sociali ed economiche.  Un fattore di progresso sociale, dunque? In realtà, il calcio è l’unico terreno su cui le differenze sociali ed economiche sembrano sparire. L’unico sul quale l’arretrato paese sudamericano può competere con una società di solide e antiche strutture capitalistiche; l’unico sul quale il Portogallo salazariano può essere confrontato con l’Inghilterra laburista. Che differenza c’è tra i tifosi napoletani che fanno a pugni per gli abbonamenti e i tifosi di Liverpool che si azzannano durante le partite più calde? Stessi gusti, stesse suggestioni, stessi costumi, dalla Sardegna all’Inghilterra, al Sud America, alla Corea. Questo, nella facciata. Ma dietro?

Dietro riappaiono tutte le diversità di paese e di classe. Riappaiono la rabbia sciovinista, l’attaccamento feudale al clan, al comune. Il Portogallo cambia faccia perché ha Eusebio? La Sardegna, che ha Riva, si avvicina alla Lombardia, che ha Mazzola e Rivera? Dietro la retorica dell’integrazione riappare il fine reale di un meccanismo capace di strumentalizzare le realtà più diverse all’insegna unitaria della “distrazione” organizzata.

Chi ama la Sardegna aiuta il Cagliari, ha detto Moratti. Così è stato il 20 giugno scorso. Un gruppo di industriali operanti in Sardegna sottoscrisse, quel giorno, il maggior pacchetto azionario della giovane squadra sarda. E si creò il “caso”, dato che tra quegli industriali c’erano alcuni funzionari della Saras, un’azienda che fa capo a Moratti. C’era da gridare allo scandalo: la grande squadra che compra la piccola, la regolarità delle partite intaccata. “Ma a Cagliari – dice Moratti – non è successo nulla di diverso da quello che avviene in tutte le squadre di calcio. Se mai è cambiato il modo. Invece di passare finanziamenti sotto banco, gli industriali che hanno aiutato il Cagliari l’hanno fatto alla luce del sole, sottoscrivendo azioni. I sardi non volevano che la loro squadra venisse smobilitata, con la cessione di Riva, di Rizzo ecc. alle squadre più forti. Volevano che il Cagliari continuasse a lottare tra le prime, par  a pari. E’ per questo che si son mossi gli industriali. In Sardegna hanno portato lavoro e benessere, a quella terra e ai sardi vogliono bene”.

Con il grosso pacchetto azionario, il Cagliari è passato dalla rendita fondiaria dei vecchi dirigenti all’industria petrolchimica dei giovani big espatriati a Milano. La vecchia società calcistica conosce adesso i benefici dell’evoluzione industriale che sta interessando tutta l’isola. Qualche discussione, come ovvio, durante il passaggio dei poteri. L’industria, nel succedere alla rendita fondiaria, non stabilirà immediatamente un regime di monopolio. La rendita fondiaria scalpiterà un poco, ma poi capirà dove soffiano i venti e accetterà l’invito.

Senonché a Cagliari qualcosa deve essere cambiato, dopo il 20 giugno. Il contributo della Regione, 180 milioni, è per il momento sospeso, su richiesta dei consiglieri comunisti. Si vuole indagare se ci sono ancora tutte le ragioni, di carattere sociale, per continuare il finanziamento di una società che ha modificato la sua struttura interna. Infatti, chi detiene il maggior pacchetto azionario di una SpA ne ha in mano il controllo.

“E’ vero – risponde Moratti – ma in tutto questo l’Inter non c’entra: le partite continueranno a essere regolari, come prima. Questi rapporti di buon vicinato l’Inter li intrattiene da sempre con tutte le squadre. Anni fa, furono ceduti al Cagliari alcuni giocatori al puro prezzo di costo: Longoni per 60 milioni, Boninsegna per 80; per Riva l’Inter aveva un’opzione, che non ha mai voluto far valere. E rapporti di buon vicinato sono stati intrattenuti ancora col Varese, con la Lazio, col Napoli, tanto per fare degli esempi. Né si può dire che sul campo Varese, Lazio, Napoli o Cagliari siano mai state tanto tenere con l’Inter”.

In ogni caso, passare al Cagliari alcuni giocatori al puro prezzo di costo potrebbe essere stato un ottimo investimento. Un Riva che era stato comprato per pochi milioni ora vale più di mezzo miliardo, Boninsegna, costato 80, potrebbe essere venduto a 300, e così via. Il Cagliari vale attualmente 2 miliardi all’incirca: comprando azioni per 140 milioni, gli industriali dell’isola ne hanno assunto il controllo.

 

Il vestito nuovo. E’ cambiato semplicemente il modo, dunque. Dai finanziamenti sotto banco si è passati alle azioni, agli impegni registrati in bilancio. L’interesse per le zone meno sviluppate, del resto, è un fattore costante per tutti i mecenati della finanza sportiva. Non è un caso se, nel vicino campo della pallacanestro, alla famosa équipe varesina che fa la pubblicità per i frigoriferi si sia aggregata, in serie A, una consorella napoletana che porta lo stesso nome.

Allo stesso modo è nelle zone meno sviluppate che si concentra l’interesse dei mecenati politici dello sport. La Roma dell’onorevole Evangelisti e il Napoli dell’onorevole Lauro sono esempi da imitare per le squadre di calcio siciliane, pugliesi, lucane ecc. I rapporti con le autorità comunali, provinciali o regionali rendono loro annualmente robusti contributi in milioni. Nel nome dell’onore per la città o della regione. Nell’interesse di chi dirige, economicamente e politicamente, la città stessa o la regione.

Questi legami economico-politici, che sono stati alla base dello sviluppo del calcio negli ultimi anni, hanno trovato ora la loro sistemazione giuridica nella riforma realizzata quest’anno dalla Federcalcio, per la quale tutti i club professionistici si sono trasformati in Società per Azioni.

“Il calcio – spiega Moratti – sta cambiando vestito. Era come una persona adulta costretta nelle fasce del neonato. Milioni e milioni di spettatori, decine di miliardi di movimento economico all’anno, e tutto questo nella veste giuridica adottata quando il calcio era ancora agli inizi. Come SpA, le società potranno ora condurre meglio la loro attività, secondo schemi economici e amministrativi più adeguati alla realtà sociale ed economica che esse rappresentano”.

Un fenomeno non privo d’interesse data l’entità della posta in gioco. Bastano alcune cifre. Negli ultimi sei anni e tenendo conto solo delle partite di campionato, le società professionistiche di serie A e B hanno incassato 60 miliardi, richiamando agli stadi 59 milioni di spettatori paganti. Le altre entrate ufficiali – partite di coppa, partite amichevoli, diritti televisivi ecc – sono valutabili nell’ordine di una decina di miliardi. Si aggiungano i contributi a scatola chiusa concessi dalle amministrazioni locali, soprattutto alle squadre del Sud, i finanziamenti versati dagli “amici” del calcio. Con tutto questo i bilanci delle società sono perennemente in deficit: 15 miliardi in totale secondo le ultime benevoli stime.

“I dirigenti – mi dice Moratti – non sono dei pazzi. Si dimentica spesso che il calcio è un fatto sportivo. Sotto questo profilo è necessario che tutte le squadre siano forti, in grado di ben figurare. E’ nell’interesse dello sport che le partite siano sempre combattute, equilibrate, aperte a ogni risultato; che non si creino dei club troppo potenti, che vincono sempre, per cui il campionato si ridurrebbe a una lotta tra poche privilegiate, con le altre che stanno a guardare. E inoltre il pubblico segue la squadra se lotta per vincere: quando perde gli incassi si dimezzano. Così per i dirigenti diventa come un dovere rinforzare continuamente le squadre, e anche quelle più piccole, le più umili, fanno il possibile per contrastare il monopolio delle potenti. Ma i giocatori costano, costano i tecnici e le attrezzature, costa l’organizzazione dei vivai per i giovani. Se si può rimproverare qualcosa ai dirigenti è il fatto che sono degli uomini, appassionati di calcio: la pressione dei tifosi, la spinta giornalistica sono tanto forti che spesso non sanno resistervi. E così sfugge loro di mano la possibilità di fare dei conti economici”.

Senonché appare per lo meno curioso il fatto che certi dirigenti non sappiano fare i loro conti economici. Le loro aziende, oltre il calcio, i loro incarichi politici funzionano in genere secondo i criteri più perfetti della efficienza produttiva. Il calcio-mercato, che si svolge nell’atmosfera arroventata di luglio, è senz’altro diverso

dagli ambienti in cui sono soliti svolgere la loro attività economica o politica. E’ un ritorno alle origini: la fiera di paese, l’energica manata del contadino che ha concluso il baratto delle vacche. La forma è grezza, ma il contadino è astuto. Il calcio può essere un investimento pubblicitario assai meno costoso e tanto più efficace dei caroselli televisivi più raffinati e delle campagne di stampa più minuziose.

“Può essere – continua Moratti – che i dirigenti abbiano fatto alcune cose bene e altre male: in ogni caso hanno sempre cercato i movimentare il mondo del calcio, di renderlo più popolare. Molti si sono anche rovinati. Ora, è questo il punto essenziale: ha, o no, il calcio un vero interesse sociale? Se non lo ha si faccia piazza pulita, si ritorni agli incontri di cinquanta anni fa. Se invece si riconosce al calcio il suo valore, allora bisogna andare aventi su questa strada, ammodernando ancora di più la sua struttura. A meno che non si preferisca nazionalizzarlo, come l’energia elettrica. Tanti commissari governativi a fare i presidenti: forse ci sarebbero meno debiti, ma dove andrebbero l’entusiasmo, la passione, che del successo del calcio sono le maggiori componenti?”

 

 

Senza fine di lucro. Come negare la funzione “sociale ” del calcio? Funzione planetaria, anzi tipica di società capitalisticamente mature come di società sottosviluppate e di paesi socialisti. Evidentemente, posto di fronte al dilemma, il governo non ha avuto dubbi né incertezze. Il ministro Corona dava infatti il via, nel novembre scorso, alla “operazione prestito”. Un prestito a basso interesse, 8 miliardi circa, veniva aperto con un conto speciale presso la Banca Nazionale del Lavoro. E si poneva la condizione della trasformazione delle società calcistiche in SpA.

Il ministro, dunque, concedeva tutta la sua fiducia ai dirigenti attuali, cui conferiva i mezzi materiali per superare la crisi finanziaria, e i mezzi tecnici per riorganizzare le società. Come SpA infatti esse potranno – secondo statuto – compiere quelle operazioni di carattere “mobiliare, immobiliare e finanziario” che saranno ritenute “necessarie, utili e pertinenti”.  Questo vuol dire che, per far quadrare il bilancio, una Calcio-SpA potrà in futuro comprare e rivendere terreni o petrolio o automobili, oppure speculare in borsa su titoli e obbligazioni. Senonché come SpA, le società di calcio dovranno anche pagare le tasse.

Qualche settimana fa una proposta di legge elaborata dall’Unione Sportiva Interparlamentare è arrivata in Parlamento. Essa è intesa a creare una nuova forma giuridica: la società sportiva, differenziata dall’ente morale e dalla società commerciale, ma con i vantaggi derivanti da entrambe: la struttura amministrativa di una SpA e lo scopo “senza fine di lucro” dell’ente morale. Con questa sistemazione giuridica, le società calcistiche non dovrebbero più pagare le tasse. I giuristi sorridono. Una SpA senza scopo di lucro non è mai esistita nella realtà economica, né è stata prevista nell’ordinamento italiano. Ma Moratti non sorride.

“E’ auspicabile – dice – che questa legge venga approvata al più presto. Il calcio infatti nulla riceve, mentre dà a tutti. Come grande fatto sportivo, fa muovere milioni di spettatori, e questo significa maggiori entrate nel settore dei trasporti, in quello turistico-alberghiero ecc. Tutti i grandi quotidiani dedicano al calcio molte delle loro pagine specializzate, e coi servizi sportivi acquistano lettori.  Sulle partite si giocano le schedine del Totocalcio, e con queste entrate viene finanziato il CONI. Se dunque i nostri giovani hanno la possibilità di fare della pratica sportiva, in qualsiasi specialità atletica, se possono andare a gareggiare all’estero, questo lo si deve proprio all’attività delle società calcistiche. Il calcio è arrivato a tanto perché, oltre a essere un fatto sportivo è anche un grande spettacolo. Ora, mentre gli altri spettacoli, come la lirica e il teatro, vengono aiutati dallo Stato con facilitazioni e contributi vari, il calcio si trova al contrario sottoposto a continui prelievi da parte dell’erario. Si dirà che la lirica e il teatro tendono alla elevazione spirituale degli spettatori. Il calcio, al suo pubblico enorme, dà qualche ora di spensieratezza, dà l’entusiasmo della discussione: è anch’esso, insomma, un grande fenomeno di interesse sociale”.

Evidentemente, in un paese come l’Italia in cui su 8.035 comuni ben 4.708 (il 59,4 per cento) sono sprovvisti di qualsiasi impianto sportivo; in cui ogni cittadino dispone di 1,42 mq di superficie sportiva (contro 5 in Germania, 7 in Norvegia, 25-35 nell’URSS ecc.); in cui solo il 2,6 per cento della popolazione pratica qualche tipo di sport (contro il 6% in Olanda, il 10% in Francia, il 20% in Danimarca ecc.); in un tale paese, evidentemente, è già un grosso fatto sociale che tanti milioni di persone lo sport lo vadano a vedere e di sport s’interessino e discutano.

Lo Stato, quando si interessa di sport, lo fa solo per tendere la mano. Le speranze, fiorite con il centro-sinistra, si sono presto svuotate. Nel settembre ’65 la legge “fifty-fifty” sul Totocalcio (ossia la ripartizione alla pari tra Stato e CONI delle entrate del concorso) modificava la situazione solo nel senso che lo Stato rinunciava a incassare di più. Poi la recente concessione del prestito, intesa più a evitare il tracollo del calcio che a risanare realmente una situazione di crisi. Ora lo sport è entrato nel programma quinquennale con una previsione di investimenti per 30 miliardi. Negli ultimi quattro anni, solo attraverso l’imposta unica sul Totocalcio, lo Stato ne ha incassati quasi 73 di miliardi, grazie al gioco del calcio.

Certo che il calcio sta a cuore allo Stato. Come sta a cuore alle banche, che finora hanno incassato un miliardo di interessi passivi ogni anno. Quelli che nel calcio si muovono – giocatori, tecnici, dirigenti – non possono che cercare di approfittare di una situazione che a tutti promette grossi vantaggi. Alla fine, a pagare lo Stato, le banche, i giocatori, i tecnici, i dirigenti ecc. è sempre chi al sabato gioca la schedina del Totocalcio, la domenica corre allo stadio, il lunedì compra il giornale.

“Presidente, cosa ci ha guadagnato in tutti questi anni di calcio?”

“Popolarità, tanta, simpatia vera di popolo: è questa la più bella soddisfazione che mi è venuta dal calcio. Non benefici di carattere industriale o politico: faccio il petroliere, non l’uomo politico, né vendo beni di diretto consumo”.

Da qualche anno, ormai, si dice che Moratti lascerà. E anche questo è un motivo perché il popolo grato continui a “parlare di calcio”.

 

http://astrolabio.senato.it/astrolabio/files/1967/1967_35.pdf#page=28

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *