Editoria, la crisi dell’industria culturale

I cervelli in gabbia

 

Astrolabio 1969/21 – 25 maggio 1969

 

L’intellettuale, braccio destro dell’editore e prezioso consigliere fino ad oggi chiuso in una gabbia d’oro, ha scoperto la sua condizione di sottoccupato. Nuovi fermenti sindacali accompagnano la crisi dell’industria culturale

 

Milano, maggio. Due stanze in fondo a un corridoio sprangate con quattro assi incrociate e una decina di persone radunate in assemblea: la prima occupazione di una casa editrice avviene alla fine di febbraio, un pomeriggio e una nottata nell’edificio della Temi di Milano. In queste due stanze vive una piccola casa editrice: un direttore, una segretaria tuttofare, un magazziniere, un addetto alle vendite. Una sola grande opera in lavorazione – una storia dell’Antifascismo e della Resistenza – confezionata tutta fuori da collaboratori esterni. I tre impiegati interni lavorano da mesi senza contratto, con la promessa ricorrente di un prossimo inquadramento sindacale; ora vogliono che le promesse siano mantenute, e occupano l’ufficio con l’appoggio di alcuni collaboratori esterni. La replica della direzione si svolge prima attraverso una serie di cavilli legali, poi con un brusco e ultimativo richiamo alla realtà: la conclusione è che i tre impiegati sono licenziati, se cosi si può dire dato che non erano mai stati formalmente assunti.

Non è un episodio isolato. Pochi giorni dopo, a Roma, scendono in sciopero i cinquanta dipendenti dell’Istituto Editoriale Romano SpA , filiazione dell’Editrice Sansoni. Il principio è sempre lo stesso: una sola opera in programma (in questo caso un “Dizionario di Architettura e Urbanistica”) e poi lo scioglimento della società. Il personale, dunque, non viene assunto col contratto di lavoro subordinato, ma viene inglobato nel termine vago di prestazione d’opera, di lavoro autonomo: quindi niente contributi assicurativi, niente tredicesima, niente liquidazione, con possibilità di licenziamento a completa discrezionalità della direzione. Dopo tre giornate di sciopero e trentacinque assemblee all’interno dell’Istituto Editoriale Romano, la vertenza si dovrebbe ora risolvere con una transazione tra le parti.

Situazioni come queste non sono affatto eccezionali nel mondo editoriale italiano, soprattutto nelle piccole aziende. Quello che c’è invece di nuovo è la capacità di lotta dimostrata dai lavoratori editoriali, la loro volontà di allargarla e organizzarla in forme sempre più concrete e avanzate.

Il primo segno di questo risveglio si era manifestato nel febbraio dello scorso anno quando, in occasione del rinnovo del contratto sindacale, anche i lavoratori editoriali parteciparono in modo significativo alle tre giornate di sciopero indette dalla Federazione Poligrafici e Cartai. Era la prima volta, dopo oltre vent’anni di completo isolamento, che questi particolari colletti bianchi prendevano parte a un’azione di massa. La spinta veniva da alcune case editrici di grandi dimensioni, come la Mondadori, la Fabbri e la Garzanti, dove con più evidenza si erano manifestati i segni della crisi di fondo dell’editoria. Una crisi di struttura in termini aziendali proprio nel momento di maggior espansione del libro, una crisi di contenuti in corrispondenza con l’insorgere prorompente, su scala mondiale, dei nuovi movimenti sociali e ideologici collegati con la guerra nel Vietnam, la rivoluzione culturale cinese, la contestazione studentesca.

 

La gabbia d’oro. Per anni e anni gli operatori della cultura si erano mossi, sprezzanti e invidiati, dentro una gabbia dorata. Il dirigente editoriale di regola intimo amico di poeti, scrittori e docenti universitari, manipolatore delle giurie dei concorsi letterari, primo confidente del padrone in tutte le questioni di alta cultura; il redattore abituato a respirare l’aria dell’intellettuale, prezioso collaboratore del padrone e dei dirigenti con cui spesso gli può capitare di discutere, magari anche di politica; il grafico con ambizioni ed esibizioni d’artista; il revisore, il correttore di bozze, il collaboratore esterno, tutti quanti frustrati comprimari in attesa del loro turno; e pure gli altri, gli addetti all’ufficio personale, le segretarie dirigenziali e sottodirigenziali, i ragionieri del settore amministrativo, i tecnici del reparto meccanografico, le dattilografe e i fattorini, tutti inglobati nel contorno del grande piatto della cultura: gli addetti alla produzione della cultura.

Ma questo schema dorato doveva inevitabilmente incrinarsi nel momento in cui i due termini già antitetici di produzione e di cultura entravano essi stessi in crisi. E’ ormai da qualche anno, infatti, che l’industria del libro si trova in una complessa fase di trasformazione: da impresa strettamente artigianale, legata rigidamente alla persona, ai gusti e alle voglie del padrone, in azienda industriale di tipo moderno, organizzata e tesa totalmente alla massimizzazione dei profitti. I nuovi principi della divisione del lavoro dove prima era la cura personale e diretta del singolo sull’opera completa; la catena di montaggio, con controllo e taglio dei tempi morti, al posto della scrivania affondata nelle carte e nei sacri testi, luogo di ricerca certosina e di meticolosa indagine. La scelta dei titoli e delle collane fatta non più dal responsabile editoriale, ma dal direttore alle vendite; la veste grafica e i tempi di edizione del libro stabiliti dagli addetti alla pubblicità e alle ricerche di mercato; i testi affidati sempre più alla consulenza esterna di specialisti ufficiali, universitari e non, che con i loro titoli ne mascherino la intrinseca superficialità scientifica, ne avallino la profonda vacuità culturale.

Il piccolo orticello entro cui ciascuno aveva coltivato con estrema cura e sacrificio quotidiano le proprie conoscenze e i propri dubbi, comincia a franare, non trova più spazio e corrispondenza sul luogo di lavoro. E ciò proprio nel momento in cui il principio stesso di questa cultura viene dissacrato, corroso, quando al culto dell’individualismo ideologico e culturale, al principio borghese della cultura come proprietà privata e come mezzo di prevaricazione e di discriminazione sociale viene opposta l’esigenza di una cultura di massa, di un sapere e di una coscienza che siano effettivamente di tutti e al servizio di tutti.

E’ un processo di proletarizzazione e di dequalificazione che coinvolge tutti quanti i dipendenti editoriali, redattori e grafici spersonalizzati, che si muovono sempre più a gruppi nei quali ciascun membro è intercambiabile con l’altro, gruppi che indifferentemente possono portare a termine prima un ‘opera di saggistica e poi un’enciclopedia per ragazzi.

 

“A titolo individuale”. La presa di coscienza di questa nuova condizione si svolge quasi sempre su due piani distinti, l’uno collegato con i motivi di fondo della crisi della cultura, l’altro con il più generale processo di emancipazione dei colletti bianchi. Il primo aspetto ha in genere la prevalenza nei settori “intellettuali” delle case editrici, cioè tra quei redattori e quei grafici che già erano in contatto con i gruppi più avanzati della contestazione e che quasi abitudinariamente ormai partecipavano alle marce della pace o alla raccolta di firme per il divorzio. Questo tipo di partecipazione esterna “a titolo individuale” costituisce ancora il principale limite della lotta all’interno delle case editrici. L’intellettuale anche più impegnato tende infatti, per formazione culturale e conformazione mentale, a realizzare fuori del luogo di lavoro la sua azione liberatoria: la scrivania e l’orario di lavoro in casa editrice sono solo il pane e il companatico della sua esistenza biologica, supporto necessario dell’altra esistenza, quella vera, sviluppata fuori nei circoli culturali e nelle manifestazioni di piazza. All’interno, l’azione che per un minimo di coerenza si comincia a svolgere, trova cosi posto solo nei ritagli di tempo, una lotta bloccata per lo più su schemi sindacali ormai logori, assunti sulla base di analisi quasi sempre affrettate.

Ma ancora nessun documento di un certo impegno è uscito dal settore dipendenti editoriali: date per scontate alcune analisi generali che si riferiscono per esempio al ruolo dell’intellettuale nella moderna industria o al ruolo della carta stampata nell’attuale società, non ci si è preoccupati di elaborare una particolare e articolata strategia interna, né si sono cercati dei contatti con gli altri movimenti dei colletti bianchi tecnici e impiegatizi, quando addirittura questi contatti non sono stati approfonditi neppure con i tecnici e gli impiegati delle case editrici stesse. Nessuna esperienza veramente nuova e autonoma si è così formata nell’azienda editoriale.

Pur con questi limiti, il movimento degli editoriali è stato in grado di unificare, almeno su alcuni punti di carattere economico-sindacale, l’esigenza di lotta di un settore così eterogeneo e difficile, impreparato da sempre a ogni tipo di azione di massa. Dopo le tre giornate di sciopero per il contratto di categoria, gli editoriali hanno partecipato a tutte le rivendicazioni di carattere nazionale (pensioni, zone salariali), hanno costituito nuove commissioni interne, alla Garzanti, alla Fabbri, al Saggiatore hanno realizzato un primo collegamento tra i lavoratori esterni attraverso un comitato che si è presentato in modo abbastanza combattivo.

 

http://astrolabio.senato.it/astrolabio/files/1969/1969_21.pdf#page=29

 

(1-continua)

 

 

 

 

Cultura di sinistra, padrone di destra

 

Astrolabio 1969/22 – 1 giugno 1969

 

Milano. “Cultura di sinistra, padrone di destra”: questo lo slogan portato in giro per le strade di Milano dai dipendenti del Saggiatore, da venti giorni ormai in agitazione permanente contro i licenziamenti preannunciati da tempo dalla direzione della casa editrice, nell’ambito di un piano di ristrutturazione aziendale già in fase di attuazione. Doveva essere un grande esperimento, sull’onda di una grande idea: una casa editrice moderna specializzata in libri di alta cultura, da prodursi e vendersi al ritmo e con i metodi degli altri libri di grande consumo: il libro di cultura come libro di massa, quindi con gli stessi profitti dei normali libri di massa. Non a caso, appena qualche mese fa, il settimanale americano Business Week aveva intitolato con questi due termini “cultura e profitto” un servizio speciale sulla casa editrice milanese.

 

La parabola del Saggiatore. Il primo tentativo per lanciare l’affare era stato effettuato da Alberto Mondadori nel 1958, ma solo due anni fa, nel settembre 1967, il Saggiatore riusciva a sganciarsi dall’abbraccio affettuoso ma soffocante del grande padre Arnoldo Mondadori Editore. Era uno sprigionarsi tumultuoso di iniziative in diversi settori: libri di storia, tecnica, arte, saggistica, geografia, economia politica, romanzi, libri per ragazzi, riviste specializzate di fisica, psicologia, ingegneria, letteratura, fino a un’enciclopedia di scienze sociali. Uno staff di dodici dirigenti giovani e ossequiosi attorno a un padrone poeta e letterato (premio Viareggio per la poesia nel 1957, con Pasolini) e poi uomo d’affari, e poi uomo politico, grande elettore alle ultime elezioni per il Partito Repubblicano.

Quasi una corte attorno al principe illuminato, con i venti redattori affaccendati in un giro vorticoso di testi di ogni tipo, un mese per un saggio di Lévi-Strauss, due settimane per un Sartre, dieci giorni per uno Sklovsky, a seconda del numero delle pagine. Tutti i libri impaginati e illustrati da un ufficio grafico e artistico composto di quattro persone, tra cui un dirigente e un capoufficio; un centinaio di collaboratori esterni impegnati in tutti i lavori di traduzione, revisione, correzione delle bozze, in gran parte senza contratto e, negli ultimi tempi, anche in arretrato con i pagamenti. Sessanta opere stampate nel 1968, e un programma editoriale che prevedeva il raddoppio della produzione entro un anno, la triplicazione entro due anni.

Ma non è facile trovare sessanta e più titoli di valore entro l’arco di dodici mesi. La linea culturale che direttori editoriali come Giacomo Dehenedetti o Enzo Paci avevano impresso al Saggiatore finché era stato solo una ristretta collana nell’ambito della Arnoldo Mondadori, questa linea va presto smarrita. Con la copertura di opere di autentico impegno pubblicate in passato, si portano in libreria testi di basso livello divulgativo, che magari inneggiano alla guerra fredda, o al sionismo. o alla linea politica dei repubblicani. Così molti libri del Saggiatore finiscono in magazzino, le vendite non sostengono i programmi più ambiziosi, e comincia in tal modo a porsi con urgenza il problema della ristrutturazione aziendale. Per primo si blocca il settore enciclopedia, mentre un collaboratore editoriale di alto rango viene praticamente sollevato dall’incarico per lasciare il posto a un notabile delle Acli, ingaggiato come consulente in questioni sindacali; negli ultimi giorni, ben cinque dirigenti “danno le dimissioni” (è infatti buona regola che nessun dirigente venga mai “licenziato”), mentre sulle spalle di tutti aleggia una frase attribuita al presidente: “Potrei anche ritirarmi in campagna”.

 

Etas-Kompass: i tecnocrati della cultura. Atmosfera diversa, invece, in un’altra casa editrice milanese dove, come al Saggiatore, l’attività nel settore culturale è iniziata da poco. La Etas-Kompass SpA è giunta infatti ai libri impegnati solo negli ultimi anni, dopo essere stata a lungo un’industria produttrice di riviste tecniche di informazione industriale. Imballaggi, architettura, materie plastiche, organizzazione aziendale, acqua, articoli idraulici e sanitari, trasporti industriali, tessuti, aeronautica, strumenti per l’edilizia, poligrafia, economia pubblica, meccanica: tante pagine dì pubblicità con alcuni articoli di raccordo, una schiera di venditori in tutta Italia e una tiratura standard assicurata. Nel 1964-65, nel momento di maggior depressione congiunturale, le medie e piccole industrie italiane spesero qui, in pubblicità, i loro ultimi investimenti, magari prima di affondare.

E come le riviste di imballaggio o di impianti igienici, la Etas-Kompass ha impostato la sua attività nel settore libri di cultura. Senza le remore e gli equivoci di ordine intellettualistico che hanno condizionato e condizionano ancora in modo massiccio le altre case editrici tradizionalmente impegnate; senza le bardature e le assurdità organizzative da cui queste case editrici non si sono ancora del tutto liberate, legate intimamente alla persona fisica del padrone, strutturate in funzione del suo status psichico e ideologico.

I 250 dipendenti del l’Etas-Kompass sono inquadrati secondo gli schemi più moderni dell’organigramma aziendale. Una équipe di dirigenti giovani e superpagati, assistiti da un ristretto numero di collaboratori tecnici e scientifici di grande esperienza; poi, a distanza, la massa degli esecutori, un lavoro dequalificato sul ritmo della routine burocratica e amministrativa; gli intellettuali editoriali quasi completamente svaniti, sia a livello dirigenziale sia a livello intermedio, bloccato ogni tipo di rapporto culturale tra il redattore e l’oggetto prodotto.

Impostato completamente dall’alto, confezionato in catena di montaggio, il libro viene seguito con cura scientifica in quella che è diventata la fase più importante di tutto il processo produttivo, la distribuzione sul mercato. Il prodotto infatti deve essere venduto, e con profitto; deve arrivare a un determinato pubblico, e dare a questo pubblico una determinata informazione. Esattamente come la rivista di informazione industriale, tante pagine di pubblicità pagata profumatamente e alcuni articoli di supporto. Così l’Etas-Kompass combina cultura e profitto. Un quaranta per cento al capitale inglese, il resto collegato alla Fiat. Una cultura dell’efficienza buona per qualsiasi ideologia o sistema politico: oggi per il centro-sinistra.

 

 

Il principato feltrinelliano. Senza incertezze o apparenti equivoci si pone all’opposto la produzione della Feltrinelli. Qui il libro è, quasi per sua stessa natura, lo strumento di una cultura, di una prassi politica ben determinante. “Già a suo tempo – precisava l’editore in una dichiarazione apparsa sull’Unità del 18 marzo scorso – gli avvenimenti del ’68 e del ’69 erano stati anticipati e previsti, e sin da allora… fu compiuta una scelta politica per precisare i compiti di una Casa editrice di sinistra in una situazione di crescente tensione politica… Si trattò quindi di passare dalla generica partecipazione culturale di sinistra degli anni ’50 e degli inizi del ’60 a una più vigorosa forma di intervento nella realtà politica e culturale del Paese… precedendo lo sviluppo stesso degli avvenimenti o al più in concomitanza con essi”.

E infatti Feltrinelli ha girato in lungo e in largo tutta l’America Latina per portare in Italia, e stampare e vendere, tutta una serie di documenti e di opere letterarie di estremo interesse; ha poi accompagnato con i suoi libri il movimento della contestazione giovanile, sulla quale si sono buttati poi tutti gli altri editori, di sinistra e no.

Tanto impegnati verso l’esterno, alla Feltrinelli, da dimenticare la realtà interna della casa editrice. Organizzata in cinque sezioni (saggistica, narrativa, economica, grandi opere e scientifica) a cui se n’è aggiunta recentemente un’altra (quella dei testi scolastici), la Feltrinelli è da una quindicina d’anni un’impresa tipicamente personale, una sorta di principato illuminato ove ogni opinione, ogni personalità si può esprimere, salvo poi pagarne le conseguenze. La linea editoriale della casa esce da una specie di direzione collegiale, a cui partecipano i dirigenti responsabili di sezione, che sono gli amici, i confidenti, i consiglieri del padrone. Ma è questi poi che fissa il bilancio massimo entro cui ogni anno essi si possono muovere: capitale personale del padrone – ricordarselo! – passivi che diventano sacrifici personali del padrone.

Così l’equilibrio editoriale ed economico si è potuto mantenere attraverso un continuo ricambio di sangue tra il personale, dirigenti redattori e grafici che, salvo eccezioni, non rimangono molti anni al loro posto. E se ne sono andati anche coloro che, nel corso degli anni, avevano cercato di impiantare alla Feltrinelli una commissione interna: niente quattordicesima – ma si fa cultura di sinistra; niente diritti sindacali – ma si lavora per la rivoluzione. Ora, da qualche mese, c’è un comitato di base, con assemblee entro l’orario d’ufficio (salvo recupero dei tempi). Ha tutto il favore e la simpatia del capo un comitato di base dentro cui è entrata anche la segretaria del padrone.

 

http://astrolabio.senato.it/astrolabio/files/1969/1969_22.pdf#page=33

 

(2-continua)

 

 

Cento miliardi di carta stampata

 

Astrolabio 1969/24 – 15 giugno 1969

 

Milano, giugno. Più di cento milioni di libri vengono prodotti ogni anno in Italia, per un giro di oltre 100 miliardi. E’ un mercato assai vasto, che offre innumerevoli possibilità di manovra. Testi d’arte numerati e libelli d’educazione sessuale, audiovisivi tecnici e dispense di moda, saggi scientifici e libri gialli: tutto può essere propinato a un pubblico eterogeneo al massimo grado, molto spesso indifeso di fronte alla suggestione della carta stampata. E’ da tener presente, a questo proposito, che solo 6 famiglie italiane su cento possiedono una biblioteca con più di 100 volumi, contro il 57 per cento delle famiglie ove non esiste alcun libro, e un restante 37 per cento che ha in casa meno di 100 volumi. Una ristretta élite di lettori superqualificati accanto alla schiera numerosa dei clienti generalmente poco preparati, interessati per lo più alla confezione e assai meno alla qualità del prodotto; poi la gran massa degli attuali non-lettori, per i quali il libro è ancora un oggetto di grande prestigio: un mercato di riserva inesauribile, aperto a qualsiasi tipo di pubblicazione.

Non è dunque un caso, come testimoniano le indagini più recenti effettuate dall’Istat, che i libri di maggior tiratura in Italia siano quelli di moda e di economia domestica (17.876 esemplari per opera stampati nel 1967), seguiti da vicino dai gialli (16.225), dai libri di viaggi (11.413), dai libri d’arte (11.178) e dai romanzi (9316); a grande distanza vengono i testi scientifici e tecnici: commercio comunicazioni e trasporti (2982 copie), scienze politiche ed economiche (2961), sociologia e statistica (2795), diritto, pubblica amministrazione, previdenza e assistenza (2043).

La più grossa fetta di tutto questo mercato è controllata da un paio di colossi, la Arnoldo Mondadori e la Rizzoli, concentrazioni industriali di notevoli dimensioni anche a livello mondiale, impegnati ormai in tutti i campi della produzione delle informazioni di massa: libri, rotocalchi, cinema, audiovisivi. Ci sono poi la Fratelli Fabbri, la Utet, la Garzanti, la De Agostini, ognuna di esse specializzata in particolari settori di distribuzione e di vendita. Infine la pletora delle altre mille case editrici, più o meno estese (da uno a duecento impiegati), alcune tecnicamente e culturalmente impegnate in autonomi filoni di produzione, più spesso semplicemente protese allo sfruttamento delle briciole che il mercato loro riserva: imitazioni sottocosto delle mode tracciate dai grandi editori, opere letterarie e saggistiche di quarta scelta, enciclopedie varie ricopiate da qualsiasi fonte.

 

L’impero di Mondadori. Dichiara 52 miliardi di fatturato annuo e si avvicina ormai al tetto dei 5 mila dipendenti il gruppo Arnoldo Mondadori Editore (un terzo circa del fatturato proviene dalle officine grafiche di Verona, dove lavorano oltre 2500 tra operai e impiegati). Tra le case editrici, è una delle più antiche e onorate, come la vita e lo stile del gran vecchio che l’ha messa in piedi dal nulla e poi l’ha diretta come una “grande famiglia”. Collane di enorme prestigio, all’ombra di grandi direttori editoriali, e testate di enorme successo: La Medusa, Lo Specchio, Vittorini, I Gialli, Epoca, Topolino, L’enciclopedia dei ragazzi. In libreria e in edicola una produzione per tutti i gusti e per tutte le età, una pagina scritta per ogni ceto sociale, un marchio di fabbrica che dà garanzia, sicurezza, fiducia: progresso senza avventure.

Poi, nelle scorse settimane, la conclusione a Milano dei contatti ad alto livello per l’esclusiva in Italia degli audiovisivi EVR: il libro registrato attraverso immagini e suoni sulla pellicola da film, la cartuccia della pellicola da inserire nel televisore appositamente predisposto: la pagina non più letta ma vista, l’informazione trasmessa nel modo più rapido e semplice, assimilabile senza possibilità di mediazione critica da parte del ricevente.

Lanciato il ponte tra antico e nuovissimo, la Mondadori ha stretto all’interno i lacci della produttività aziendale, e si è costruita “in plastico” (vedi Epoca del 13 aprile scorso) una sede bellissima e supermoderna da erigere nei prossimi anni. Potentissimi pilastri aerei triangolari che sostengono dall’alto le strutture degli edifici, un progetto di Oscar Niemeyer, il “poeta del cemento”, il creatore di Brasilia. Oltre 2000 postazioni di lavoro “tra mura di cemento armato e cristalli colorati anti-radiazioni solari… in vani luminosissimi, acusticamente isolati e muniti di condizionatori d’aria”: la catena di montaggio dell’informazione sicura e fidata per tutti, senza avventure, sistemata tra prati e laghetti artificiali alla periferia di Milano, con servizio di parcheggio e asilo d’infanzia per i figli dei dipendenti.

 

La scalata dei Fabbri. Non sono andati invece a cercare poeti i padroni di via Mecenate, dove il blocco di cristalli e cemento che sorregge il nome giallo dei Fabbri è il monumento forse più riuscito di un tipico boom economico. Tanti anni in una piccola e scomoda sede a stampare libri di fiabe o parascolastici. Poi la scoperta delle dispense e la messa a punto di un nuovo efficacissimo sistema di distribuzione attraverso le edicole: pittura, letteratura, Bibbia, musei, cucina, Divina Commedia, cucito, jazz, medicina, giardini, diritto, lingue straniere, dischi, favole, automobile, eccetera eccetera: una serie infinita di fascicoli da rilegare in enormi copertine di finta pelle, sommerse da onde, arabeschi e strascichi di finto oro.

Mobilitazione in massa dei cattedratici di mezza Italia, per illuminare con spreco inusitato di titoli accademici l’oscuro e stiracchiato lavoro di centinaia di assistenti e di volonterosi studenti: misere compresse di sottocultura che passano direttamente dal produttore allo scaffale del consumatore, destinate a perpetuare, se usate, le scarse conoscenze di chi le consulta. Dunque opera assai meritoria, e un affare per tutti. Ingigantita l’azienda nel giro di pochissimi anni, i tre fratelli compaiono sempre più spesso in compagnia di vescovi e di vice-ministri a presentare opere, a promuovere premi, a inaugurare collane.

Nel grande palazzo di via Mecenate, alla fine, vengono stipate circa 1300 persone, donne in prevalenza, di quinta, quarta e terza categoria. Perché, anche formalmente, certe tipiche qualifiche del lavoro editoriale sono state qui messe da parte: così il redattore è stato sostituito dal “revisore” (incaricato infatti di revisionare e correggere il lavoro di stesura dei testi, eseguito tutto dai collaboratori esterni), mentre la già subordinata funzione del correttore di bozze si stempera in una serie di sotto-funzioni (riscontratore, lettore, correttore). A tutto questo, naturalmente, è corrisposto un marcato abbassamento delle qualifiche e quindi degli stipendi, rimanendo al contrario invariate, nella pratica, la quantità e la qualità del lavoro prestato dai lavoratori.

 

La crisi delle librerie. Già gravemente danneggiate dal successo delle dispense e poi dei libri tascabili in edicola, le librerie sono cadute ancor più in crisi con l’affermarsi su vasta scala di un nuovo sistema di vendita, quello “porta a porta” direttamente al consumatore. Cento sorrisi e una parlantina oceanica, i venditori di libri costituiscono ormai una rete che capillarmente si estende su tutta la penisola. Alla Garzanti, per esempio, si sono sviluppate negli ultimi tempi una ottantina di agenzie sparse in tutte le principali città, direttamente dipendenti dalla direzione centrale e organizzate con i più aggiornati metodi della distribuzione: vendono ogni genere di libri, ma soprattutto dizionari e opere enciclopediche, con ordini e prenotazioni che spesso si prolungano nel tempo anche per parecchi anni. E’ con questo sistema che le piccole case editrici spesso riescono a prosperare, programmando e vendendo in anticipo opere voluminose di cui esiste magari solo il primo volume; e poi continuano a sopravvivere immettendo nel mercato, a determinate scadenze, i volumi di aggiornamento.

Ancorato alla libreria è rimasto invece il sistema di distribuzione dei testi scolastici, un settore questo che copre circa un terzo della produzione libraria totale. Sottoposto a un tipo di controllo che in pratica si riduce all’osservanza dei programmi ministeriali, il libro scolastico è al centro di un mercato divenuto da qualche anno assai florido, al quale confluiscono ormai quasi tutti gli editori. La speculazione editoriale raggiunge qui punte difficilmente superabili: libri di storia di stretta marca fascista rimodernati con l’aggiunta di un ritratto di Gramsci o con la cronistoria della Resistenza; opere di scienze o di latino o di matematica, già collaudate nella vecchia scuola media di classe, che si trasformano in fiammanti testi per la media unificata solo con l’adozione di una nuova copertina plastificata e una spruzzatina di nuova didattica. “Tutto questo – si legge sull’ultimo inserto di Lombardia poligrafica – non solo si traduce in un gigantesco furto, ma cela, dietro la facciata della ‘cultura di massa’, un aggravarsi dei dislivelli culturali di classe. Infatti solo chi ha già cultura e spirito critico in proprio può difendersi dalla frode; gli altri, le masse che si affacciano per la prima volta al mondo dei libri, ritrovano in essi la stessa ignoranza nella quale, in tutte le società classiste, operai e contadini sono sempre stati confinati”.

 

L’occupazione del Saggiatore. La vicenda del Saggiatore si pone a questo punto come nodo emblematico nella complessa crisi che investe oggi il mondo editoriale, sia nei suoi aspetti culturali generali, sia in quelli aziendali interni. Dopo settimane di velate minacce e di voci allarmistiche propagate ad arte, dopo un esplicito tentativo, andato a vuoto, di esautorare una commissione interna troppo invadente, la direzione del Saggiatore si trova costretta a mettere le carte in tavola: c’è un grave deficit (si parla di circa un miliardo) e l’unico modo per tenere a galla l’azienda è quello di licenziare 30 persone, quasi la metà dell’organico. Mercoledì 4 giugno gli editoriali milanesi scendono per la prima volta in piazza per uno sciopero di solidarietà con i dipendenti del Saggiatore, contro i licenziamenti, contro un sistema di ristrutturazione che, oltre a far pesare sulle spalle dei lavoratori le scelte sbagliate del padrone, mira in ultima analisi a “liquidare” tutti coloro che, all’interno della casa editrice, potrebbero opporsi o comunque ostacolare l’esercizio diretto del potere da parte del padrone stesso. Lunedì 9 giugno, dopo l’ondata di arresti tra i leader del Movimento Studentesco e mentre si radunano in piazza Duomo oltre 4 mila persone per una manifestazione di protesta, i dipendenti interni ed esterni del Saggiatore decidono l’occupazione della casa editrice. “La lotta del Saggiatore – scrive in un volantino il comitato di agitazione – ha i suoi caratteri specifici, ma al tempo stesso ha anche i caratteri della lotta operaia. Non è solo la falsa coscienza della cultura borghese a essere posta in discussione, ma è il modo di produzione dell’industria dell’informazione”.

 

http://astrolabio.senato.it/astrolabio/files/1969/1969_24.pdf#page=31

 

(3-fine)

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *