Carlo Porta, Milanes

 

L’onestà e l’etica del lavoro sono alla base della poesia di Carlo Porta. Ma già dal secondo Ottocento a Milano l’onestà e l’etica del lavoro si erano discostate dall’etica della responsabilità pubblica.

Sonetti e testi tratti integralmente dal volume di Mauro Novelli, Divora il tuo cuore, Milano. Carlo Porta e l’eredità ambrosiana (Il Saggiatore, Milano 2013).

 

 

Sissignor, sur Marches, lu l’è marches,

marchesazz, marcheson, marchesonon,

e mì sont el sur Carlo Milanes,

e bott lì! senza nanch on strasc d’on Don.

 

Lu el ven luster e bell e el cress de pes

grattandes con sò comod i mincion,

e mì, magher e biott, per famm sti spes

boeugna che menna tutt el dì el fetton.

 

Lu senza savè scriv nè savè legg

e senza, direv squas, savè descor

el god salamelecch, carezz, cortegg;

 

e mì (destinon porch!), col mè stà sù

sui palpee tutt el dì, gh’hoo nanch l’onor

d’on salud d’on asnon come l’è lu.

[p. 75]

 

 

D’accordo, signor Marchese, lei è marchese, / marchesazzo, marchesone, marchesonone, / e io sono il signor Carlo milanese, / e fermo lì!, senza neanche lo straccio di un “don”.

Lei vien lustro e s’ingrassa / grattandosi con comodo le palle, / e io, misero e magro, per tenere botta / devo muovere il didietro tutto il giorno.

Lei senza sapere né scrivere né leggere / e senza quesi saper conversare / si gode salamelecchi, lusinghe e corteggiamenti;

e io, destinaccio porco!, con tutto il mio stare / sulle carte il giorno intero, non ho neanche l’onore / d’un saluto da un asinone come lei.

[p. 236]

 

 

Non il patriottismo italiano, né la devozione religiosa, ma la proba operosità è il metro inappellabile sul quale Porta misura i suoi giudizi. Al mutare di scenari e figure corrisponde la stabilità dell’opposizione tra ozio e impegno. Su questo punto non è disposto a transigere nei sonetti come nel Biroeu o nella Ninetta,  ogni qual volta si metta in discussione l’onestà e la dignità del lavoro, la voce del Porta si altera, la sua risposta si fa animata, rabbiosa persino, o sarcastica verso quanti − sacerdoti e nobili per primi − non gli paiono disposti a riconoscerne il primato sulla scala dei valori sociali. Emerge, irrefrenabile, un orgoglio borghese laico e privo di complessi. Se pure Porta non fu “intenzionalmente un moderno” come scrisse Montale, tale andrà ritenuto con riguardo alle modalità espressive e allo spirito liberale riversato in poesia, a monte delle sue idee in materia di giustizia e uguaglianza.

[p. 199]

 

 

Quand vedessev on pubblegh funzionari

a scialalla coj fiocch senza vergogna,

disii pur che l’è segn ch’oltra el salari

el spend lu del fatt sò quell che besogna.

 

Quand savessev del franch che all’incontrari

nol gh’ha del sò che i ball ch’el ne bologna,

allora senza nanch vess temerari

disii ch’el gratta, senza avegh la rogna.

 

Quand intrattant ch’el gratta allegrament

vedessev che i soeu capp riden e tasen,

disii pur che l’è segn che san nient.

 

Ma quand poeù ve sentissev quaj ribrezz

perché a dì che san nient l’è on dagh dell’asen,

giustemela e disii che fan a mezz.

[p. 215]

 

 

Se vi capitasse di vedere un pubblico funzionario / godersela in grande stile, senza vergogna, / dite pure che è segno che, oltre al salario, / può spendere del suo quel che occorre.

Se doveste scoprire che, al contrario, / di suo non ha che le balle che sbologna, / allora non vi occorre essere audaci, / per dire che gratta senza aver la rogna.

Se, mentre gratta allegramente, / doveste vedere che i suoi capi ridono e tacciono, / dite pure che è segno che non sanno nulla.

Ma se poi vi sentiste una certa ritrosia, / perché dire che non sanno niente è dar loro dell’asino, / aggiustiamola, e dite che fanno a metà.

[p. 282]

 

 

Spesso si sente ripetere che i momenti di crisi propiziano il ritorno alle soluzioni semplici. Non sarebbe male, certo, se si cominciasse rialzando un pilastro del vecchio stereotipo: l’onestà. Ma la questione è meno ovvia, e va legato a un altro tratto costitutivo della mentalità locale. Come ha osservato Mario Barenghi, il punto è che a Milano l’etica del lavoro fin dal secondo Ottocento si era rivelata “tendenzialmente noncurante, quando non affatto ignara, dell’etica della responsabilità pubblica” [in “La capitale immorale, tra Arcore e Gomorra”, Lo Straniero, XV, marzo 2011]. L’osmosi tra imprenditoria e politica promossa dalla classe dirigente ambrosiana durante la Seconda repubblica, lungi dall’eliminare questa lacuna, ne ha fatto il moltiplicatore dei guasti che stanno sotto gli occhi di tutti. Al volgere di un’egemonia tanto attesa, e tanto deludente, i dilemmi mai sciolti bussano con un’urgenza drammatica alle porte di una città che sta cambiando − stavolta letteralmente − pelle e corpo.

[p. 216]

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *